Il neopaganesimo ha una sua etica possibile, si tratta di un’etica di libertà di cui dobbiamo farci portavoce  ed emissari.

di Davide Marrè

Esistono da sempre due idee di paganesimo che sono cresciute nel nostro paese. La prima è quella di un paganesimo “debole” che vede nella definizione di paganesimo (o neopaganesimo), l’ombrello che raccoglie qualsiasi cosa definisca sé stesso come pagano. La seconda è un’idea “forte” di neopaganesimo, come religione o insieme di religioni o insieme di correnti religiose, raccolte attorno a principi etici e spirituali. Questo neopaganesimo individua all’interno del paganesimo contemporaneo due correnti, indentificate come religioni o insiemi di culti, animati da valori molto diversi tra di loro. La prima corrente propriamente neopagana e la seconda veteropagana e/o tradizionalista.

È su questa seconda concezione di neopaganesimo con cui mi misurerò, una concezione che non accetta come neopagano tutto ciò che si definisce neopagano: parafrasando uno dei principi  del tanto contestato Concilio delle streghe di Minneapolis degli anni ’70,  “per essere pagani non basta definirsi pagani”, o se preferite mettere i puntini sulle i… per essere neopagani non basta definirsi neopagani.

La visione di un neopaganesimo forte si misura inevitabilmente con dei valori differenti dai valori tradizionali. In questo senso il tradizionalismo è visto di fatto, in una prospettiva realmente neo-pagana, come un nominalismo a cui non corrisponde un reale cambio di valori e di etica rispetto all’etica dominata dal cristianesimo: questi valori infatti si rifanno in un modo o nell’altro a quella civiltà dei “padri” (anche se sarebbe meglio dire di certi “padri” e certe “madri”), che si fonda sul sessismo, sulla divisione dei ruoli, sulla segregazione e sulla dominanza. Questo non significa che sia l’unica civiltà dei padri possibile o che sia determinata in modo esclusivo dal genere maschile (al contrario), o in cui il maschio abbia tante più colpe rispetto alla donna. Questa tuttavia è la civiltà che abbiamo conosciuto fino ad oggi.

La civiltà, per come la vedo io, è una configurazione di potere e di poteri a cui ogni essere umano collabora anche contro sé stesso. Questa civiltà, cosiddetta “patriarcale”, si fonda sulla schiavitù, sulla sottomissione, sull’odio per il diverso, sulla segregazione: oggi è la sottomissione tutta contemporanea al denaro, ma anche a un dirigente, a un presidente, a un re, a un imperatore e alla figura più astratta del Dio dei monoteismi o piuttosto ai suoi comandamenti. I padroni del mondo usano le religioni come strumento di governo o di terrore, per restare nell’attualità dei recenti attentati.

È l’omofobia e il razzismo. È la violenza di chi uccide chi non ha lo stesso credo, ma anche di chi vilmente entra in un locale gay e fa una carneficina di vittime innocenti solo perché “amano in modo differente”. È la meschinità di chi propaga le idee del Mein Kampf. È l’attitudine a trovare sempre un responsabile esterno ai nostri problemi, esterno e “alieno”: l’immigrato, lo zingaro, l’omosessuale, l’ebreo, l’appestato, la strega, ecc.

Questa fase della civiltà occidentale, per molti versi forse necessaria, sta tramontando. Il risveglio dell’etica neopagana, in tempi di globalizzazione, ne è un esempio. Perché l’etica neopagana ha il suo cardine nella libertà, una libertà che si oppone urlando silenziosamente alla sottomissione, al razzismo, all’odio nei confronti del diverso.

L’etica della libertà

Questa libertà è espressa, nella Wicca, nella massima: “Fa ciò che vuoi se non danneggia nessuno.” Ma tutto il neopaganesimo condivide un principio simile. Da questa libertà individuale, che in quanto tale deve essere uguale per tutti gli esseri umani, discende il principio di uguaglianza, e dal principio di uguaglianza quello di fratellanza. Tutti noi siamo in grado di riconoscere quei tre valori, liberté, egalité fraternité che hanno animato la rivoluzione francese e che derivano probabilmente da alcune frange di una tra le “prime” tra le associazioni esoteriche e segrete, la massoneria.

Questo principio di libertà viene elevato a legge del nuovo eone da Aleister Crowley nel Liber Al vel Legis: “Fa ciò che vuoi sarà tutta le Legge. […] Amore è la Legge, amore sotto la volontà.”

Fa ciò che vuoi: ogni essere umano ha diritto all’autodeterminazione, alla propria realizzazione e alla propria personale evoluzione. Questo principio è stato elevato a principio etico della Wicca e reso in qualche modo più esplicativo, essoterico, da Gerald Gardner, il fondatore della Wicca, “fa ciò che vuoi se non danneggia nessuno”, per diventare un riferimento dell’etica neopagana.

Si tratta di un principio etico che tuttavia non ha bisogno di un Dio, né tantomeno di Dei. Esso è semplicemente autofondante. Se io riconosco di poter essere libero, riconosco questa libertà possibile a tutti i miei simili. Nel momento in cui non rispetto questa libertà, come valore umano assoluto, divento io stesso uno schiavo. La sopraffazione è una catena circolare, se non riconosco il principio di libertà, mi inserisco nella catena dove per sopraffare qualcuno, prima o poi sarò io stesso sopraffatto da qualcuno. Naturalmente ho la libertà di accettare o rifiutare la libertà stessa, o meglio, nascendo in catene, ho la possibilità di spezzare la catena: questo è ancora un mondo di schiavi. Essere poi al servizio della libertà è la cosa più difficile. Perché l’uomo non nasce libero, ma deve conquistare la sua libertà.

Nell’Incarico della Dea, il principale testo della Wicca, la possibilità di essere liberi e il dovere di liberarsi, è espresso magnificamente nelle frasi tratte da AradiaIl Vangelo delle streghe: “Voi sarete liberi dalla schiavitù!” Ma la Dea ci dice anche che la libertà si conquista, essa è assoluta, ma non è data: “Io sono ciò che è conquistato alla fine del desiderio.” Per un wiccan la libertà è quindi l’essenza del suo percorso: essa è data come possibilità ed è una missione conquistarla.

Nessuna realtà superiore (sia essa lo Stato o la Religione) avrebbe il diritto di interferire in questa realizzazione. L’unica limitazione posta dal “se non danneggia nessuno” è che la tua libertà finisce dove inizia quella dell’altro e che questo altro è da intendersi sia come “tu” che come “esso”, altro essere umano e altro essere.

Principio laico

La libertà come principio radicale sta anche nel cuore della fondazione delle moderne democrazie laiche. È un principio che noi, come neopagani, consideriamo in qualche modo religioso, ma che è parte dell’etica laica. Anche se spesso lo stato in quanto nazione ha limitato i diritti delle persone, questi sono stati via via conquistati grazie alla possibilità di azione, di protesta, di libero pensiero e libera parola, impossibile in qualsiasi totalitarismo. Pensiamo al suffragio universale, alle pari opportunità, al divorzio, alla depenalizzazione dell’omosessualità, alla revisione di leggi coercitive contro i malati psichiatrici, al rispetto delle minoranze che è il fondamento di ogni società civile e democratica. Un neopagano avversa qualsiasi tipo di totalitarismo che limiti, in nome del bene superiore della Nazione, la libertà individuale.

Si tratta di un principio che non ha origini nel cristianesimo, come spesso si cerca di far credere, ma che ha origine proprio in opposizione ad esso. Prima nel Rinascimento, con la rinascita degli ideali classici, poi con l’Illuminismo, poi nel neoclassicismo e nel positivismo che ha visto la nascita dell’Italia come nazione attraverso il risorgimento in opposizione alla Chiesa.

Questa laicità è neopagana perché accetta tutte le religioni, ne garantisce l’esistenza, così come nell’antichità si garantiva la pluralità di dei e in alcuni periodi storici la pluralità di culti, come fanno del resto diverse scuole esoteriche o spirituali (non solo la Massoneria, ma anche la teosofia, la Goleden Dawn, ecc.) Non c’è niente di più errato di quanto dichiarato da Papa Francesco: “O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi in coloro che vogliono toglierti dai luoghi pubblici ed escluderti dalla vita pubblica, nel nome di qualche paganità laicista o addirittura in nome dell’uguaglianza che tu stesso ci hai insegnato.” La laicità pagana non toglierebbe mai alcun “idolo” da alcun luogo pubblico, al massimo vorrebbe aggiungere delle divinità. Non è infastidita da una croce appesa, ma al massimo dal fatto che ci sia solo quella. La laicità che vuole il vuoto è invece proprio la laicità nata nell’ombra dell’ideale cristiano, solo che all’”unica” croce sostituisce un “unico” vuoto.

Il bene e il male

Sul cardine della libertà si instaura anche un diverso concetto di bene e di male. Per spiegare questo concetto di bene e di male, mi viene automatico fare riferimento alla visione tradizionalista del bene e del male come è espressa da Elemire Zolla, che io trovo aliena, come quella di un inquisitore. Elémire Zolla, fa parte di quella che si suole chiamare “Scuola tradizionalista”, tra cui si annovera anche Evola, e sul cui pensiero si fonda un certo veteropaganesimo.

Nel commento al Signore degli Anelli, Zolla individuerebbbe una differenza “sottile e radicale, come fra la notte e il giorno” che discriminerebbe Tolkien, da Graves e Williams e Powys. Ammesso e non concesso che questa differenza esista, secondo Zolla essa sta nel fatto che per l’autore in Tolkien non si trova la mediazione tra bene e male: “i suoi draghi non sono da assimilare, da sentire in qualche modo fratelli, ma da annientare.”

Ecco per un neopagano i draghi, che pur rappresentano le forze ctonie (e oscure) della Terra, non sono mai da annientare. Secondo Zolla, in Graves, su cui tanto si basa la rinascita del neopaganesimo, “sempre si torna a venerare una Madre Bianca che è sorgente di energia tutta terrestre. In breve, ci si ritrova nell’atmosfera consueta, moderna, erotica, intrisa di confusione, androgina, che fu inaugurata da Blake, che è stata nella scorsa generazione formulata da Jung.”

Ebbene l’etica neopagana è proprio moderna ed erotica, intrisa di confusione, androgina. L’eroe di quest’etica è spesso “goffo, violento, puerile, svergognato, oltraggia l’ordine dei sessi, della religione e della famiglia stessa.” Bene e male in quest’etica appaio “intrecciati in modi inestricabili.” Non tanto per desiderio di “collaborazione” con il male, quanto per l’inevitabilità dell’Ombra che è già dentro di noi. Questo non significa che non si debba ingaggiare la battaglia con l’Ombra, ma che anche l’Ombra possa essere oggetto di compassione. È questo che Zolla, in un cieco manicheismo, non comprende.

Ma il suo parallelo, nel citare una famosa opera contemporanea, è assolutamente corretto. Parlando della protagonista di Rosemary’s Baby di Ira Levin, la definisce misera perché “guardando il mostricino partorito dopo il connubio con Satana, il cui occhio felino è esattamente uguale a quello del Male assoluto di The Lord of the Rings, sussurra: «Non può essere tutto malvagio, non potrebbe esserlo. Anche se mezzo Satana, era pure per metà suo, per metà un essere umano decente, ordinario, sensato… Se ella avesse operato contro di loro, esercitando un’influenza buona per contrastare la loro, maligna…».” Misera è la sua ricerrca di umanità nel figlio di Satana. Egli non comprende invece che è ben misera sua visione manichea, mentre una madre, o se preferiamo la Madre, levandosi davanti al Male, riconosce sempre un qualcosa di buono ad ogni creatura, soprattutto quando esprime solo potenzialità e nessun atto, come un infante. Non c’è dubbio che qualora questa Madre avesse sentito la necessità di lavare i peccati dell’umanità, avrebbe certamente trovato una soluzione differente che quella di sacrificare suo figlio. Per Rosemary, una madre umana, si tratta di un atto eroico e allo stesso tempo folle: scorgere il lato umano della Bestia. Perché la Madre può.

Perché in fin dei conti… il male assoluto non esiste. Di questa rivalutazione del mostro è intrisa tutta l’arte pop contemporanea, un’ininterrotta celebrazione dell’Ombra, che non risparmia nemmeno la più famosa saga di Guerre stellari. Ha rivisto Dracula e il mito del vampiro. Da Penny Dreadful ad American Horror Story per finire con Game of Thrones, ecco la sequela di eroi goffi, violenti, puerili e svergognati. Ecco questi eroi che non sono paladini del bene o del male, ma della vita. Eroi che governano draghi, che dubitano, dall’etica dubbia e incerta, quando non completamente ribaltata. Eppure anche nel più tenebroso si scorge una luce. In AHS Hotel il manipolo di fantasmi, serial killer, vampiri, ma soprattutto madri (ce ne sono tre) afferma con orgoglio e rivendicazione: “We are family.”

La sensazione, ma è una sensazione che non ha nulla di logico, è che questa famiglia dalle dinamiche così distruttive e fagocitanti, è meno pericolosa per il mondo di quella famiglia per bene, piccolo e medio borghese che nei decenni dopo il II dopoguerra ha messo a rischio con le politiche della Guerra fredda il mondo intero. È l’etica della famiglia Addams, quella della totale alterità / diversità, contro il modello della famiglia Bradford, la normalità, che è il vero mostro: la banalità del male. Quella fatta di campi di concentramento, manicomi / lager, rifiuto del diverso. Mi viene quindi più naturale sentirmi molto più figlio della famiglia Addams.

Una visione neopagana della famiglia

Cambia la famiglia e cambierai il mondo. Senza entrare nel merito della storia della famiglia, che non mi compete, è evidente che la crisi del concetto di famiglia borghese sta cambiando profondamente la società. Questo modello di famiglia, molto giovane peraltro, con cui si fa coincidere la famiglia tradizionale, esiste da relativamente poco tempo e si è delineato come il modello padre e madre e figlio / figli.

La famiglia rurale e quella preindustriale erano molto diverse. Soprattutto la prole era per lo più forza lavoro all’interno di una società molto rigida.

Oggi noi seguiamo quel modello di libertà per cui l’individuo persegue la sua realizzazione, una realizzazione in cui la famiglia di origine e i genitori dovrebbero intervenire il meno possibile o quel tanto che basta. Perché l’unica famiglia naturale è quella dove c’è amore e l’amore è imperfetto e umano, talvolta generatore di mostri.

Mentre la famiglia della tradizione è la fucina dove si fanno i figli, per Dio o per lo Stato non ha differenza e dove si trasmettono i valori (quelli di Dio e dello Stato), la famiglia del nuovo paganesimo non può fondarsi su questo. Essa è il luogo dove le persone esprimono per la prima volta la propria libertà e i suoi confini. È la palestra di ogni relazione che si fonda sul rispetto della libertà dell’individuo. Essa è il luogo (o dovrebbe esserlo) dove gli individui si valorizzano gli uni con gli altri, dove l’Uno diventa i molti.

Esistono poche parole chiave che possono qualificare la nuova famiglia. La prima è scelta, non perché in qualche modo la famiglia si scelga, ma perché essa dovrebbe essere il luogo dove si impara a scegliere. E nonostante la famiglia tradizionale sia lontanissima da tutto questo, sempre più la famiglia contemporanea si trasforma da luogo delle aspettative dei genitori verso i figli (e dei figli verso i genitori), a luogo delle scelte della vita: voglio o non voglio essere come te, voglio o non voglio seguire il tuo modello, voglio o non voglio che tu sia questo o quello. Perché a genitori e figli spetta in qualunque caso la necessità di scegliersi o di non scegliersi. È su questo che si instaura la relazione: una relazione piena di se e di ma, perché sono cadute le figure tradizionali che sono stati i capisaldi di questa relazione… ma piena di possibilità, dove le figure genitoriali e quelle dei figli si ridefiniscono costantemente.

In questa ridefinizione dei ruoli, l’assenza di aspettative gioca un ruolo fondamentale nella libera espressione di sé. È evidente che ogni termine della relazione ha sempre delle aspettative, ma queste aspettative si devono misurare con la persona per lasciare spazio all’espressione autentica di se e dell’altro. In questo modo le aspettative, i desideri, i sogni si trasformano nella quarta parola chiave… quando le aspettative vengono meno appare l’accettazione.

Accettazione non è una supina presa d’atto che “sei così e io non posso fare nulla”, accettazione è prendere atto che la persona è un tu che si forma nella relazione e che questa relazione se si fonda nell’amore è imprevedibile: ama e fa ciò che vuoi diceva Sant’Agostino che non a caso nel De Magistro si è occupato proprio di educazione.

L’insegnamento

I genitori insegnano attraverso quella particolare relazione che si svolge nella famiglia e che dovrebbe essere un “lasciar essere”, una delle cose più difficili perché implica un’attenzione totale all’altro e alla sua manifestazione e una “cura” dell’essere che convinca e non costringa.

Ma c’è un insegnamento che viene da coloro che si offrono come guide (maestri, insegnati, tutor, counselor, guide spirituali, ecc.). La questione posta da Sant’Agostino è ancora tipicamente pagana perché si incardina nei temi del neoplatonismo: c’è una vera natura dell’anima? Come partecipa quest’anima al mondo della verità che però non appartiene al mondo che viviamo ogni giorno? L’insegnamento è quindi la capacità di far sì che la mente dell’uomo possa accedere alla più intima verità di sé stesso, che in realtà lo trascende. Si ritorna al Sé di Jung, alla funzione trascendente.

Nell’ottica neopagana della libertà, non esistono maestri, almeno non come nell’intendimento delle altre religioni. Nel neopaganesimo non ci si consegna ad un maestro per apprendere. Si può decidere se cercare una guida che ci aiuti ad apprendere. In molte coven tradizionali gardneriane l’apprendimento era affidato all’aspirante e all’iniziato che semplicemente guardavano ciò che facevano gli altri.

Nei misteri di Iside accadeva la stessa cosa, i sacerdoti sono esecutori della volontà della Dea, mentre l’iniziativa prima spetta all’iniziato. Manca l’affidamento al maestro / sacerdote perché prima di tutto l’iniziato si affida alla Dea, i sacerdoti sono a volte degli interpreti, a volte dei “facilitatori” della volontà degli dei, cioè di ciò che viene dal profondo dell’iniziato. I sacerdoti non danno permessi, parlano chiaro rispetto al lavoro da fare, al sentiero da compiere. Punto. Tutto ciò che l’iniziando / iniziato fa oltre al lavoro spirituale che gli è dato è un problema suo: è la sua vita. Il sacerdote ne parla se interpellato, ma non ha alcun diritto a intervenire se non offrendo dei consigli e facilitando il lavoro spirituale relativamente agli impegni della vita.

Questo può disorientare il praticante che spesso si aspetta che siano gli altri a compiere il cammino per lui o che arrivi dalla guida un aiuto che è impossibile dare.  La guida, l’insegnante non è quindi che un alleato del maestro interiore. Offre una preparazione a comprendere la sua lezione, ad ascoltare la sua voce. È così che l’insegnamento dovrebbe sempre trasformarsi in una via verso il divino, verso gli dei, verso la pluralità della manifestazione che conduce ad un’unità trascendente. La scelta sempre possibile, la porta di uscita sempre aperta, il cammino da percorrere, ove possibile, almeno idealmente, chiaro.

La guida è colei che accenna, come fanno gli oracoli: il Signore che ha l’oracolo in Delfi non dice e non nasconde, ma accenna. Accenna al Sé, se lo ha trovato o se lo sta a sua volta cercando, all’unità trascendente dell’essere, a quell’idea di unità che è anche la fonte dell’integrità individuale.

Unicità e pluralismo

Questo concetto di unità trascendente è stato spesso fuorviante. È chiaro innanzitutto che esso è per lo più un concetto, un’idea appunto, la prima idea quella dell’Uno. Ma noi facciamo costantemente esperienza di un mondo molteplice. Parlando dell’Uno, il filosofo pagano Plotino afferma che esso è al di sopra dell’essere, pertanto è ineffabile e impredicabile ed è un limite per la ragione. Chi conosce il taoismo avrà in mente la frase: il tao che si può dire non è l’eterno tao. Essendo l’Uno non oggettivabile e non conoscibile, Plotino non può pensarlo come realtà statica senza entrare in contraddizione. Lo concepisce quindi come libertà infinita o assoluta potenza: ecco che ritorniamo al concetto di libertà. Una realtà che non ha mai conclusione e che quindi genera continuamente sé stessa, solo così si oggettivizza e crea il mondo. Lo fa perché la sua abbondanza trabocca perché nell’estasi autocontemplativa esce appunto fuori di Sé, non perché ne abbia necessità, ma perché donarsi è la sua natura e così si disperde nel molteplice.

La concezione dell’Uno di Plotino, come nel Taoismo, non nega affatto gli Dei. Le divinità negli sviluppi successivi del neoplatonismo sono il modo in cui l’uno si fa comprensibile, ma la molteplicità delle divinità non nega l’Uno.

Questa filosofia che si sviluppa con Porfirio pone al vertice dell’ordine universale una triade primordiale, cioè un dio assolutamente trascendente (ἅπαξ ἐπέκεινα, fr. 169 Des Places), cioè l’Uno plotiniano, una divinità femminile intermedia o «Potenza» (δύναμις, fr. 4), che viene identificata con Ecate, intesa come Anima del mondo, e infine un Intelletto demiurgico rivolto sia al sensibile sia all’intelligibile. È questo Demiurgo che è l’Architetto del mondo. La Wicca offre una visione molto simile: questa triade superna è rappresentata (sebbene in modalità diverse) dalla Dea e dal Dio e da un divino ineffabile, inteso a volte come forma di energia, come mana, potere magico, essenza primordiale e varie concettualizzazioni.

Al di sotto di questa triade suprema esistono altri dei, ma anche esseri divini con la funzione di mettere in contatto uomini e dei, di premettere l’armonia dell’universo, e infine di favorire l’ascesa delle anime individuali.

Le divinità sono ora mediatori con l’ineffabile, altre volte guide, mentre il destino delle anime è quello di liberarsi dal mondo raggiungendo una purificazione completa che le elevi al rango di compagne degli dei.

Per Giamblico la mediazione tra molteplicità e unità si attua attraverso la teurgia: un sistema di riti, preghiere, evocazioni, invocazione alle divinità, divinazione tramite sogni, oracoli, ispirazione e simboli che rappresentano la mediazione fra il mondo materiale dell’umano e quello trascendente del divino. Il neopaganesimo è un tentativo contemporaneo che riflette l’esigenza di mediazione tra il divino interiore, tra quella parte ineffabile che è in noi, e la molteplicità in cui siamo immersi.

Nonostante siamo molto lontani dai rituali teurgici di Giamblico la filosofia che anima i rituali pagani è la stessa: connessione del microcosmo con il macrocosmo. Il problema è che per lungo tempo siamo stati immersi in un finto richiamo all’unità come se essa potesse esistere nel mondo.

Quante volte siamo stati abituati all’idea che esista un solo lavoro adatto a noi, una sola fede, persino un solo uomo o donna nella nostra vita. Questa sorta di monismo oggettivato è quanto di più lontano dalla filosofia neoplatonica che insegna che l’Uno, ineffabile e intelligibile, è libertà. La civiltà ha pensato invece di ordinare così il molteplice, non avrai altro dio, altro lavoro, altro compagno, ecc. I rituali neopagani tendono quindi piuttosto a ristabilire un rapporto corretto con la molteplicità in primis, rappresentata dalla Natura, dagli dei, dalla varietà degli esseri, piuttosto che con l’Unità che è stata erroneamente oggettivata, nel Dio unico per esempio, nella fede unica, nell’unica verità, e che ha piegato il mondo a questo modello. Uscire dall’idea dell’unità oggettivata è difficilissimo perché l’uno oggettivato ci perseguita in ogni ambito della nostra vita come abbiamo visto. Il Dio unico ha in qualche modo soggiogato la verità dell’Uno, ineffabile, inintelligibile e soprattutto infinitamente libero.

Quest’idea di unità si è talmente oggettivata da diventare egotismo, culto dell’uno me. Culto della mia unità, eppure se guardiamo all’Io, il cui simbolo è spesso indicato con il simbolo solare, il cerchio con il punto al centro. Quell’oscurità centrale non è altro che il punto dove si manifestano la molteplicità degli archetipi. L’Io, ben lungi dall’essere unico, è solo un teatro dove si manifestano le istanze più svariate.

Natura

Per uscire da quest’idea di unità oggettivata che perseguita l’uomo occidentale, le religioni neopagane si sono rivolte in primo luogo a quella dimensione di molteplicità e teatro della diversità che è la natura, anzi la Natura. Armonizzarsi con la Natura diventa riconoscere la molteplicità quella propria interiore e quella esteriore. Perché la Natura è il teatro dell’accadere molteplice, della diversità, dell’eccezione. Mai espressione fu più contraddittoria che “contronatura”, in linea teorica nulla è contronatura, a parte forse la tecnica. Tuttavia produrre tecné è parte della natura umana, esattamente come è naturale che il ragno produca la tela.

Nel rapporto tra tecnica e Natura, si giocherà nei prossimi secoli il divenire stesso dell’umanità. Dominare la tecnica o farsi dominare da essa. Integrare la naturalità in uno schema più ampio che si complementi con la tecnologia in un’evoluzione continua. Oppure tentare il dominio totale della Natura spogliandola di ogni attributo divino che è l’istanza a cui si oppone fortemente il neopaganesimo contemporaneo.

Al centro di questa battaglia che nel neopaganesimo vede il recupero della Natura come teatro del molteplice, ma anche come luogo del divino, dove è possibile primariamente scorgere l’anima del mondo, l’Ecate dei neoplatonici, che vede come attributo naturale dell’uomo quello del “fare anima” esattamente come del produrre tecnica, c’è il “corpo”.

Corpo

Perché il corpo è il mezzo e il teatro in cui tutto si produce. Esso può essere il luogo della naturalità, perché è ciò che più ci fa comprendere la nostra vicinanza al mondo dei viventi, con le sue funzioni e i suoi cicli. Può essere il luogo della tecnica perché ci viene naturale espanderlo con gli strumenti della tecnica (sia una forchetta o un cellulare). Può essere infine il luogo del divino perché è nell’essere nel mondo con il nostro corpo che possiamo cogliere quelle aperture del sacro dove il divino si manifesta a noi, nella forma del dio che portiamo dentro.

Il corpo è quindi il tempio del fare anima, del dare anima alle cose, del ridare vita al mondo, è il tempio abitato da simboli e archetipi, per cui una rosa non sarà mai soltanto una rosa quando vista con gli occhi di questo corpo che sono si occhi fisici, ma anche occhi dell’anima. Il corpo è anche l’altare dello spirito, perché è attraverso l’unità del Se corporeo che ogni esserci sperimenta l’unità originaria e quella scintilla che brilla sull’altare che è il Se, l’idea di uno ineffabile, inconoscibile, eppure presente. Il corpo è anche l’inferno della materia, della degenerazione e della morte a cui l’Io si oppone desiderando la sua immortalità attraverso la tecnica che sfidala degenerazione e ha dichiarato guerra alla morte.

Il corpo è quindi valore assoluto: Michelangelo lo aveva compreso perfettamente. Basta dare uno sguardo a quell’immenso inno al corpo che è la cappella sistina per rendersene conto. È in questo tempio che si attua ogni cosa, è da questo tempio che l’Io muove i primi passi verso il simulacro dell’anima (la Dea) e dove riconosce l’altare dello spirito (il Dio). Due sono le colonne che alle porte del tempio sono erette, la forma e la forza, divine e perfette, dice il Credo delle Streghe della Valiente. Questo tempio dell’anima e dello spirito è pervaso da una luce, un mana, un’energia che è il riflesso del divino inintelligibile. Il corpo rappresenta infine la libertà originaria, la dualità di anima e spirito, di Adamo ed Eva, del Dio e del della Dea. Perché in questo tempio splende la libertà infinita dell’Uno che noi possiamo cogliere e ammirare. Fa ciò che vuoi sia la sfida, così nell’amore che non danneggia nessuno sia compiuto ogni atto, continua il nostro Credo.

Opporsi alla fondamentale libertà che l’individuo esercita entro il suo tempio, attraverso l’espressione di Sé e della sua anima, soffoca il divino stesso. E quando quest’espressione sarà realmente autentica essa sarà davvero libera e incapace di nuocere al mondo e agli altri. È a questo ideale di libertà assoluta e quindi consapevole di tutte le “altre libertà” che deve tendere un’etica veramente neopagana.

È un’etica che mette nelle mani della persona innanzitutto la gestione del Suo tempio e che rende il tempio del corpo vincolato alla volontà di chi lo abita, a questa volontà che agisce tra le mura del tempio nessuno può opporsi: essa decide entro di sé del suo essere e del suo non essere più. Guai a chi interviene nel limitarne le possibilità.

Quando si confronta con le altre volontà nella valle dei templi del mondo, lo fa ispirandosi alla propria natura di essere libero e pertanto, ne coltiva e ne rispetta la libertà in un ideale di comune fratellanza. E vigila affinché le leggi di un popolo siano garanti della massima espressione della libertà di ciascuno.

Fatto salvo questo principio di inviolabilità, non dovrebbe essere difficile aderire ad un comportamento etico anche nei confronti anche di esseri diversi da noi e della Natura stessa che ci ha fornito i mattoni di cui il tempio è costituito, che il Demiurgo ha innalzato e che risplendono della luce dell’Uno.

Così ecco il fine etico fondamentale del neopaganesimo: formare individui in grado di reclamare la propria libertà.